Il racconto che sta sotto è stato scritto a inizio 2015, ma si è trovata la forza di renderlo pubblico solo ora.
Tratta ciò che è accaduto alla sede dell'associazione Il cacomela, e di conseguenza alle sorti del cacomela stesso.
Questo probabilmente potrebbe
far parte dei buoni propositi per iniziare l’anno nuovo.
Non sono mai riuscita prima d’ora
a scrivere qualcosa sulla storia della sede della nostra associazione di donne,
Il cacomela.
Siamo rimaste senza sede lo
scorso luglio, e io non sono riuscita non solo a scrivere un comunicato
ufficiale, ma nemmeno a darne la notizia spiegandone le ragioni sul nostro
blog, o la pagina facebook o tramite mailing list.
Una cosa vergognosa, una cosa
che avrei davvero dovuto fare in quanto sono la presidente dell’associazione, e
perché tante persone chiedevano notizie, chiamavano per sapere quando saremmo
state di nuovo in sede, che cosa stava succedendo,…
Il fatto è che sono stata
totalmente bloccata fino ad ora.
Facevo fatica a parlarne,
figuriamoci a scriverne.
Avrei voluto scrivere - i
primi giorni - ai giornali, alle tv locali, per spiegare le nostri ragioni, per
spiegare che secondo noi stavamo subendo una grossa ingiustizia.
Sarebbe stata una di quelle
storie in cui figurano i politici di turno, a cui non frega nulla delle persone
che hanno davanti ma solo dei numeri e dei soldi, e in cui i funzionari ti
dicono che loro non possono decidere perché ricevono ordini da qualcuno che
conta di più.
La storia della fine della
nostra amata sede è una delle tante storie italiane, in cui si mescola
tantissima burocrazia che strazia, politici che non ascoltano, e il potere che
subisci.
Il cacomela
ha avuto una bellissima sede fin da subito: una piccola costruzione a due
piani, in campagna, all’interno di un parco regionale, che era stata scuola per
le bambine e i bambini della vallata, per poi svuotarsi per anni una volta
diventata inutile, e rianimarsi una volta arrivate noi, una associazione di
donne con la voglia di appropriarsi di un luogo e farlo diventare una sorta di
casa comune.
Volevamo un posto che fosse
bello, accogliente, in cui potessimo andare da sole per cambiare aria, in cui
potersi incontrare per cenare, chiacchierare, leggerci brani di libri della
biblioteca, guardare films, parlare di noi, della famiglia, della politica, un
luogo per piangere e ridere.
Ma quella sede l’abbiamo
sempre voluta aperta anche agli altre e alle altre, e vi abbiamo organizzato
molti eventi nei 3 anni in cui è stata nostra: mostre, letture per adulti e
bambine/i, proiezioni di films e documentari, feste, concerti, seminari anche
residenziali, corsi di autoproduzione, convegni, un laboratorio di canto
settimanale, appuntamenti mensili di meditazione e un corso per ballare la
pizzica…
Volevamo fare un po’ di
cultura in montagna, perché qui non ce n’è poi molta, e alcune di noi, venendo
dalla pianura e dalla città, ne sentivano un po’ la mancanza.
Volevamo stare insieme in un
luogo che non fosse le nostre case - che frequentiamo anche troppo, che fosse
neutro perché era di tutte, che fosse immerso nel verde, che fosse aperto a chiunque
volesse entrarci.
L’idea era quella di proporre
quello che ci veniva in testa su argomenti vari, che poi col tempo si sono
delineati meglio e hanno avuto come comune denominatore il femminismo, con
tutti i contenuti che può portare.
Sul nostro blog www.ilcacomela.blogspot.com è possibile, scorrendolo, leggere tutte le iniziative
che abbiamo organizzato oltre a tenere aperto tutte le domeniche uno spaccio -
il che è sempre stato molto impegnativo ma ci permetteva di autofinanziarci.
Lo spaccio era una porta
aperta sul verde della valle ogni domenica, dentro alla quale i turisti, le
persone a passeggio, trovavano ad accoglierli una o più donne dietro a un
bancone, buona musica di sottofondo, un clima informale, cibo biologico locale
e molto curato, birra artigianale, prodotti del commercio equo e solidale,
oggetti creati da donne del luogo che potevano arrotondare facendo due soldi in
più.
La domenica era importante:
si faceva amicizia con qualche coraggioso viandante autoctono che varcando la
soglia veniva a conoscere un piccolo mondo che difficilmente si incontra sui
monti, ci si ritrovava a parlare e confrontarsi con gente della bassa modenese
e bolognese su temi importanti, anche grazie agli input dati dalle numerose
locandine appese dei nostri eventi, o dai libri che avevamo in vendita o in
biblioteca, dai volantini che tenevamo a disposizione.
La sede è sempre stata
proprietà dell’Ente Parco Regionale, e noi ci siamo sempre relazionate con i
politici e funzionari dell’ufficio di Modena, e con gli impiegati di Pieve di
Trebbio - in questi anni sempre tutti uomini.
Partì tutto con un bando, al
quale decidemmo di partecipare, e fu creata appositamente l’associazione.
In effetti ci rendemmo conto
fin dall’inizio che l’affitto richiesto era altino, per una sede in un luogo
abbastanza sperduto, o per lo meno disabitato dal lunedì al sabato e che si
rianimava solamente le domeniche di bel tempo, ma eravamo cariche, entusiaste,
piene di idee, al principio tutte donne di pianura salite in montagna non solo
per dormirci ma per viverci, per piantare radici, per conoscere il territorio e
condividerlo con chi già ci stava.
Non siamo state sicuramente
incoraggiate dal personale del parco, che ascoltava quasi con imbarazzo le
nostre idee, intuendo come avrebbe potuto malamente finire.
E noi però, consapevoli del
rischio, decidemmo di provarci.
Partimmo in quinta
organizzando un mare di cose, ma ci rendemmo conto dopo un annetto che c’era
qualcosa che non quadrava: effettivamente stavamo offrendo dei servizi al
territorio (lo spaccio aperto ai turisti ogni domenica per 9 mesi all’anno,
vendita di guide e materiale sul parco, la nostra assistenza e le nostre
risposte alle domande di chi veniva a fare trekking, attività aperte alla
cittadinanza, ai bambini e alle bambine, alle neo mamme e papà….), ma per fare
questo dovevamo pagare.
Ciò che incassavamo non era
un guadagno, tramite le tessere, i pochissimi ingressi a pagamento a prezzi
popolari o i pranzi di autofinanziamento, ma era un pagare le spese di gestione
dell’edificio che ammontavano circa a 1000 euro all’anno, pagare l’affiliazione
a Uisp, le varie assicurazioni, le tasse.
Quello che entrava usciva
subito, e avevamo spesso la sensazione di dover rincorrere con ansia il
miraggio dell’autosostentamento. Le spese potevamo accettarle, ma pagare un
affitto dal momento in cui offrivamo un servizio ed eravamo di fatto tutte
volontarie…no, quello era diventato inconcepibile.
In linea di massima le
associazioni potevano avere diritto a uno spazio gratuito offerto dal comune, no?
Quindi decidemmo di revocare
il contratto, e aspettare che uscisse un altro bando, con richieste economiche
più accettabili, una cifra simbolica, magari non proprio zero ecco, ma avanti
così avremmo dovuto chiudere.
Dopo parecchio tempo - perché
i tempi per queste cose sono sempre esageratamente lunghi - l’Ente ha riaperto
un bando, al quale, come la volta prima, partecipammo solo noi (le uniche
interessate a far rivivere un luogo come quello).
Ma, sorpresa non gradita, l’affitto era stata sì abbassato, ma c’era una richiesta di fidejussione di 20.000 euro sul valore dell’edificio.
Ma, sorpresa non gradita, l’affitto era stata sì abbassato, ma c’era una richiesta di fidejussione di 20.000 euro sul valore dell’edificio.
All’inizio non capivamo
neanche bene la portata e l’assurdità della richiesta, perché nessuna di noi
era avvezza a questo linguaggio o dinamiche, ma, una volta informate, abbiamo
realizzato che si trattava di una vera e propria fregatura, oltre che di una
cifra altissima per un contratto di quel tipo.
Se chiedi ad una associazione
piccola, in montagna, che cerca faticosamente di autofinanziarsi, di sborsare
20.000 euro, ecco, la metti in difficoltà.
Al principio la nostra
compagnia assicurativa promise che avrebbe trovato una soluzione, ma, dopo
averci lasciate in sospeso per diversi mesi, ci annunciò il suo fallimento e la
chiusura.
Altri uffici assicurativi
dissero che non ci avrebbero aperto la pratica, che era una cifra insensata per
quell’edificio, le banche volevano degli interessi altissimi ogni anno, e anche
la Banca Etica, che pur ha dimostrato comprensione e collaborazione, era troppo
cara per noi, in quanto avviando delle pratiche fidejussorie, ogni anno le
nostre spese si sarebbero alzate di troppo per essere sostenibili.
Tanti sono stati i viaggi a
Modena presso gli uffici dell’Ente per tentare di spiegare, di fare capire a
questi uomini in giacca e cravatta, che in alcuni casi mai erano stati sui
nostri colli pur lavorando per i parchi regionali, il senso di quello che
stavamo facendo da 3 anni.
Eravamo smaniose di mostrare
tutte le cose fatte, cercavamo un briciolo di empatia, volevamo raccontare che
tutto il nostro sbattimento aveva lo scopo di non abbandonare un luogo a noi
caro, che si sta spopolando, che la gente lentamente si stava abituando a
vedere aperto, perché in quegli anni avevamo conquistato donne che si erano
avvicinate, persone che si erano tesserate, che ci frequentavano.
Quello che trovavamo ogni
volta che entravamo in quegli uffici era: freddezza, superiorità, sfottio,
qualche accenno sessista, false promesse fatte da qualcuno per poi essere
rimangiate al cospetto di qualcun’altro di più importante sulla scala politica.
Hanno provato a farci sentire
frivole donnette montanare senza senso della realtà, senza comprensione per
come va il mondo e come funziona l’economia, ci hanno suggerito di tenere
aperto lo spaccio tutti i giorni per alzare il guadagno, senza conoscere che
nei giorni infrasettimanali in quella zona non avrebbe avuto senso e dando per
scontato che, essendo donne, durante la settimana non avremmo avuto altro da
fare che fare volontariato e berci dei the.
Ci hanno accusate di averci
aiutate mentre noi non eravamo in grado di gestire la situazione, senza capire
la base del discorso: quello era un posto speciale, lo stavamo rianimando,
rendendolo utile per noi, per le altre persone, per la montagna, ma non
volevamo farlo a un costo troppo alto, che ci stava erodendo e trasmettendo
ansia.
Evidentemente era chiedere
troppo.
La loro risposta era no,
semplicemente perché la burocrazia è impossibile da aggirare, e la fidejussione
la dovevamo pagare, perché era stato deciso così da un impiegato che non sapeva
nulla di noi.
Noi pretendevamo umanità e
comprensione da una categoria che invece bada alle cifre, ai bilanci, alle attività
che rendono e quelle che non rendono, da chiudere.
Poi sono arrivati i giorni in
cui ci siamo abbassate a fare quelle cose che solo l’essere messe alle strette
poteva portarci a fare, cioè chiedere aiuto a politici amici dell’amica
dell’amico, per vedere se si riusciva a smuovere qualcosa, ma niente.
A un certo punto, dopo
esserci tanto confrontate tra noi, con i soci e le socie venute premurosamente
in aiuto, ci siamo guardate e ci siamo chieste:
a che costo? A che costo
siamo disposte a rimanere in questo luogo, che amiamo, ma che ci stanno
rendendo insostenibile?
I mesi seguenti sono serviti
a tutte noi per incassare il colpo, per recarci in sede con un peso sullo
stomaco a staccare i nostri posters dalle pareti, i biglietti d’auguri che il
nostro caro socio Alessandro ci faceva trovare a ogni ricorrenza, i disegni
fatti dai bimbi e dalle bimbe, le foto di One billion rising fatto nelle nostre
piazze sbigottite, i volantini delle decine di feste organizzate, i volantini
delle associazioni di Modena come la casa delle donne contro la violenza,
dell’Udi, delle Donne migranti, del Centro Documentazione Donna, del
gruppo Donne e giustizia, Differenza
maternità, OBR, dei mercatini biologici di Modena e Bologna, della campagna Noi
No…
E poi ci sono voluti mesi per
arrenderci all’idea che per ora vedersi è meno facile di prima, perché prima la
sede catalizzava le nostre energie, il nostro tempo, le nostre domeniche, ora
dobbiamo organizzare appuntamenti ad hoc nelle case, in cui raramente ci
vediamo tutte.
Mi manca il confronto
frequente sui libri letti, gli articoli, i fatti accaduti, la politica,
l’educazione.
Mi manca stare dietro al
bancone e vedere una socia entrare con un cane al guinzaglio, vederne un’altra
che arriva con figlie e figli al seguito per pranzare insieme, mi manca vedere
i tavoli imbanditi di cibi ottimi in occasione dei corsi, mi manca vedere
Monica Lanfranco che arriva con le sue borse di libri, pronta per un seminario,
mi manca vedere mia figlia che si aggira per la sede e il giardino salutando i
turisti, come se fosse in una seconda casa, mi manca vedere alcuni uomini
entrare e capire di essere in un posto speciale, da rispettare e in cui
camminare in punta di piedi, perché lì sono le donne a essere protagoniste.
Mi mancano i cerchi di sole donne
che facevamo sui nostri morbidi cuscini, e i cerchi in cui anche gli uomini
erano invitati perché parlavamo di noi e di loro INSIEME, per dare anche a loro
la parola, e mi mancano le riflessioni profonde e utili che ne scaturivano.
Mi mancano le pareti colorate
con impegno della sala al primo piano, la vista dei Sassi di Roccamalatina
dalle finestre, la stufa potentissima che ha scaldato tante serate.
Continuo a essere convinta
che abbiamo fatto tanto, forse un tanto che era troppo per questi posti, e per
quei politici e funzionari, per essere capito e apprezzato.
Sono ancora più convinta che
ne sia valsa la pena, di partire da zero, di fare fatica, e mandare giù rabbia,
perché così ci siamo conosciute, e ci siamo divertite.
Ma sono anche convinta che per
Il cacomela questa sede abbia
significato tanto, e che ora non sarà facile eguagliarla.
Ci siamo anche chieste se ci
fosse un luogo in cui poter continuare.
Abbiamo sondato presso il
comune di Zocca, in particolare con la bibliotecaria Stefania, che in questi
anni ci ha sempre supportate, se in quella zona poteva esserci una sede per
noi, che non fosse un salasso. Su Guiglia non siamo particolarmente benvenute
dall’amministrazione, per cui abbiamo lasciato perdere.
E per ora siamo rimaste
questo, un gruppo di amiche che fanno in modo di tenere allacciati i rapporti
umani, e che si scambiano mail con films da vedere, libri e articoli da
leggere, passeggiate da fare e festival a cui partecipare.
Questa è la nostra piccola
storia, che ha a che fare con la sensazione asfissiante che il potere a volte
vince, e che a volte occorre essere ragionevoli, e lasciar andare.
Agnese Prandi
19/01/15