martedì 2 giugno 2015

MA DOV'È FINITO IL CACOMELA?



Il racconto che sta sotto è stato scritto a inizio 2015, ma si è trovata la forza di renderlo pubblico solo ora.
Tratta ciò che è accaduto alla sede dell'associazione Il cacomela, e di conseguenza alle sorti del cacomela stesso.




Questo probabilmente potrebbe far parte dei buoni propositi per iniziare l’anno nuovo.

Non sono mai riuscita prima d’ora a scrivere qualcosa sulla storia della sede della nostra associazione di donne, Il cacomela.
Siamo rimaste senza sede lo scorso luglio, e io non sono riuscita non solo a scrivere un comunicato ufficiale, ma nemmeno a darne la notizia spiegandone le ragioni sul nostro blog, o la pagina facebook o tramite mailing list.
Una cosa vergognosa, una cosa che avrei davvero dovuto fare in quanto sono la presidente dell’associazione, e perché tante persone chiedevano notizie, chiamavano per sapere quando saremmo state di nuovo in sede, che cosa stava succedendo,…
Il fatto è che sono stata totalmente bloccata fino ad ora.
Facevo fatica a parlarne, figuriamoci a scriverne.
Avrei voluto scrivere - i primi giorni - ai giornali, alle tv locali, per spiegare le nostri ragioni, per spiegare che secondo noi stavamo subendo una grossa ingiustizia.
Sarebbe stata una di quelle storie in cui figurano i politici di turno, a cui non frega nulla delle persone che hanno davanti ma solo dei numeri e dei soldi, e in cui i funzionari ti dicono che loro non possono decidere perché ricevono ordini da qualcuno che conta di più.
La storia della fine della nostra amata sede è una delle tante storie italiane, in cui si mescola tantissima burocrazia che strazia, politici che non ascoltano, e il potere che subisci.
Il cacomela ha avuto una bellissima sede fin da subito: una piccola costruzione a due piani, in campagna, all’interno di un parco regionale, che era stata scuola per le bambine e i bambini della vallata, per poi svuotarsi per anni una volta diventata inutile, e rianimarsi una volta arrivate noi, una associazione di donne con la voglia di appropriarsi di un luogo e farlo diventare una sorta di casa comune.
Volevamo un posto che fosse bello, accogliente, in cui potessimo andare da sole per cambiare aria, in cui potersi incontrare per cenare, chiacchierare, leggerci brani di libri della biblioteca, guardare films, parlare di noi, della famiglia, della politica, un luogo per piangere e ridere.
Ma quella sede l’abbiamo sempre voluta aperta anche agli altre e alle altre, e vi abbiamo organizzato molti eventi nei 3 anni in cui è stata nostra: mostre, letture per adulti e bambine/i, proiezioni di films e documentari, feste, concerti, seminari anche residenziali, corsi di autoproduzione, convegni, un laboratorio di canto settimanale, appuntamenti mensili di meditazione e un corso per ballare la pizzica…
Volevamo fare un po’ di cultura in montagna, perché qui non ce n’è poi molta, e alcune di noi, venendo dalla pianura e dalla città, ne sentivano un po’ la mancanza.
Volevamo stare insieme in un luogo che non fosse le nostre case - che frequentiamo anche troppo, che fosse neutro perché era di tutte, che fosse immerso nel verde, che fosse aperto a chiunque volesse entrarci.
L’idea era quella di proporre quello che ci veniva in testa su argomenti vari, che poi col tempo si sono delineati meglio e hanno avuto come comune denominatore il femminismo, con tutti i contenuti che può portare.
Sul nostro blog www.ilcacomela.blogspot.com è possibile, scorrendolo, leggere tutte le iniziative che abbiamo organizzato oltre a tenere aperto tutte le domeniche uno spaccio - il che è sempre stato molto impegnativo ma ci permetteva di autofinanziarci.
Lo spaccio era una porta aperta sul verde della valle ogni domenica, dentro alla quale i turisti, le persone a passeggio, trovavano ad accoglierli una o più donne dietro a un bancone, buona musica di sottofondo, un clima informale, cibo biologico locale e molto curato, birra artigianale, prodotti del commercio equo e solidale, oggetti creati da donne del luogo che potevano arrotondare facendo due soldi in più.
La domenica era importante: si faceva amicizia con qualche coraggioso viandante autoctono che varcando la soglia veniva a conoscere un piccolo mondo che difficilmente si incontra sui monti, ci si ritrovava a parlare e confrontarsi con gente della bassa modenese e bolognese su temi importanti, anche grazie agli input dati dalle numerose locandine appese dei nostri eventi, o dai libri che avevamo in vendita o in biblioteca, dai volantini che tenevamo a disposizione.
La sede è sempre stata proprietà dell’Ente Parco Regionale, e noi ci siamo sempre relazionate con i politici e funzionari dell’ufficio di Modena, e con gli impiegati di Pieve di Trebbio - in questi anni sempre tutti uomini.
Partì tutto con un bando, al quale decidemmo di partecipare, e fu creata appositamente l’associazione.
In effetti ci rendemmo conto fin dall’inizio che l’affitto richiesto era altino, per una sede in un luogo abbastanza sperduto, o per lo meno disabitato dal lunedì al sabato e che si rianimava solamente le domeniche di bel tempo, ma eravamo cariche, entusiaste, piene di idee, al principio tutte donne di pianura salite in montagna non solo per dormirci ma per viverci, per piantare radici, per conoscere il territorio e condividerlo con chi già ci stava.
Non siamo state sicuramente incoraggiate dal personale del parco, che ascoltava quasi con imbarazzo le nostre idee, intuendo come avrebbe potuto malamente finire.
E noi però, consapevoli del rischio, decidemmo di provarci.
Partimmo in quinta organizzando un mare di cose, ma ci rendemmo conto dopo un annetto che c’era qualcosa che non quadrava: effettivamente stavamo offrendo dei servizi al territorio (lo spaccio aperto ai turisti ogni domenica per 9 mesi all’anno, vendita di guide e materiale sul parco, la nostra assistenza e le nostre risposte alle domande di chi veniva a fare trekking, attività aperte alla cittadinanza, ai bambini e alle bambine, alle neo mamme e papà….), ma per fare questo dovevamo pagare.
Ciò che incassavamo non era un guadagno, tramite le tessere, i pochissimi ingressi a pagamento a prezzi popolari o i pranzi di autofinanziamento, ma era un pagare le spese di gestione dell’edificio che ammontavano circa a 1000 euro all’anno, pagare l’affiliazione a Uisp, le varie assicurazioni, le tasse.
Quello che entrava usciva subito, e avevamo spesso la sensazione di dover rincorrere con ansia il miraggio dell’autosostentamento. Le spese potevamo accettarle, ma pagare un affitto dal momento in cui offrivamo un servizio ed eravamo di fatto tutte volontarie…no, quello era diventato inconcepibile.
In linea di massima le associazioni potevano avere diritto a uno spazio gratuito offerto dal comune, no?
Quindi decidemmo di revocare il contratto, e aspettare che uscisse un altro bando, con richieste economiche più accettabili, una cifra simbolica, magari non proprio zero ecco, ma avanti così avremmo dovuto chiudere.
Dopo parecchio tempo - perché i tempi per queste cose sono sempre esageratamente lunghi - l’Ente ha riaperto un bando, al quale, come la volta prima, partecipammo solo noi (le uniche interessate a far rivivere un luogo come quello).
Ma, sorpresa non gradita, l’affitto era stata sì abbassato, ma c’era una richiesta di fidejussione di 20.000 euro sul valore dell’edificio.
All’inizio non capivamo neanche bene la portata e l’assurdità della richiesta, perché nessuna di noi era avvezza a questo linguaggio o dinamiche, ma, una volta informate, abbiamo realizzato che si trattava di una vera e propria fregatura, oltre che di una cifra altissima per un contratto di quel tipo.
Se chiedi ad una associazione piccola, in montagna, che cerca faticosamente di autofinanziarsi, di sborsare 20.000 euro, ecco, la metti in difficoltà.
Al principio la nostra compagnia assicurativa promise che avrebbe trovato una soluzione, ma, dopo averci lasciate in sospeso per diversi mesi, ci annunciò il suo fallimento e la chiusura.
Altri uffici assicurativi dissero che non ci avrebbero aperto la pratica, che era una cifra insensata per quell’edificio, le banche volevano degli interessi altissimi ogni anno, e anche la Banca Etica, che pur ha dimostrato comprensione e collaborazione, era troppo cara per noi, in quanto avviando delle pratiche fidejussorie, ogni anno le nostre spese si sarebbero alzate di troppo per essere sostenibili.
Tanti sono stati i viaggi a Modena presso gli uffici dell’Ente per tentare di spiegare, di fare capire a questi uomini in giacca e cravatta, che in alcuni casi mai erano stati sui nostri colli pur lavorando per i parchi regionali, il senso di quello che stavamo facendo da 3 anni.
Eravamo smaniose di mostrare tutte le cose fatte, cercavamo un briciolo di empatia, volevamo raccontare che tutto il nostro sbattimento aveva lo scopo di non abbandonare un luogo a noi caro, che si sta spopolando, che la gente lentamente si stava abituando a vedere aperto, perché in quegli anni avevamo conquistato donne che si erano avvicinate, persone che si erano tesserate, che ci frequentavano.
Quello che trovavamo ogni volta che entravamo in quegli uffici era: freddezza, superiorità, sfottio, qualche accenno sessista, false promesse fatte da qualcuno per poi essere rimangiate al cospetto di qualcun’altro di più importante sulla scala politica.
Hanno provato a farci sentire frivole donnette montanare senza senso della realtà, senza comprensione per come va il mondo e come funziona l’economia, ci hanno suggerito di tenere aperto lo spaccio tutti i giorni per alzare il guadagno, senza conoscere che nei giorni infrasettimanali in quella zona non avrebbe avuto senso e dando per scontato che, essendo donne, durante la settimana non avremmo avuto altro da fare che fare volontariato e berci dei the.
Ci hanno accusate di averci aiutate mentre noi non eravamo in grado di gestire la situazione, senza capire la base del discorso: quello era un posto speciale, lo stavamo rianimando, rendendolo utile per noi, per le altre persone, per la montagna, ma non volevamo farlo a un costo troppo alto, che ci stava erodendo e trasmettendo ansia.
Evidentemente era chiedere troppo.
La loro risposta era no, semplicemente perché la burocrazia è impossibile da aggirare, e la fidejussione la dovevamo pagare, perché era stato deciso così da un impiegato che non sapeva nulla di noi.
Noi pretendevamo umanità e comprensione da una categoria che invece bada alle cifre, ai bilanci, alle attività che rendono e quelle che non rendono, da chiudere.
Poi sono arrivati i giorni in cui ci siamo abbassate a fare quelle cose che solo l’essere messe alle strette poteva portarci a fare, cioè chiedere aiuto a politici amici dell’amica dell’amico, per vedere se si riusciva a smuovere qualcosa, ma niente.
A un certo punto, dopo esserci tanto confrontate tra noi, con i soci e le socie venute premurosamente in aiuto, ci siamo guardate e ci siamo chieste:
a che costo? A che costo siamo disposte a rimanere in questo luogo, che amiamo, ma che ci stanno rendendo insostenibile?
I mesi seguenti sono serviti a tutte noi per incassare il colpo, per recarci in sede con un peso sullo stomaco a staccare i nostri posters dalle pareti, i biglietti d’auguri che il nostro caro socio Alessandro ci faceva trovare a ogni ricorrenza, i disegni fatti dai bimbi e dalle bimbe, le foto di One billion rising fatto nelle nostre piazze sbigottite, i volantini delle decine di feste organizzate, i volantini delle associazioni di Modena come la casa delle donne contro la violenza, dell’Udi, delle Donne migranti, del Centro Documentazione Donna, del gruppo  Donne e giustizia, Differenza maternità, OBR, dei mercatini biologici di Modena e Bologna, della campagna Noi No…
E poi ci sono voluti mesi per arrenderci all’idea che per ora vedersi è meno facile di prima, perché prima la sede catalizzava le nostre energie, il nostro tempo, le nostre domeniche, ora dobbiamo organizzare appuntamenti ad hoc nelle case, in cui raramente ci vediamo tutte.
Mi manca il confronto frequente sui libri letti, gli articoli, i fatti accaduti, la politica, l’educazione.
Mi manca stare dietro al bancone e vedere una socia entrare con un cane al guinzaglio, vederne un’altra che arriva con figlie e figli al seguito per pranzare insieme, mi manca vedere i tavoli imbanditi di cibi ottimi in occasione dei corsi, mi manca vedere Monica Lanfranco che arriva con le sue borse di libri, pronta per un seminario, mi manca vedere mia figlia che si aggira per la sede e il giardino salutando i turisti, come se fosse in una seconda casa, mi manca vedere alcuni uomini entrare e capire di essere in un posto speciale, da rispettare e in cui camminare in punta di piedi, perché lì sono le donne a essere protagoniste.
Mi mancano i cerchi di sole donne che facevamo sui nostri morbidi cuscini, e i cerchi in cui anche gli uomini erano invitati perché parlavamo di noi e di loro INSIEME, per dare anche a loro la parola, e mi mancano le riflessioni profonde e utili che ne scaturivano.
Mi mancano le pareti colorate con impegno della sala al primo piano, la vista dei Sassi di Roccamalatina dalle finestre, la stufa potentissima che ha scaldato tante serate.
Continuo a essere convinta che abbiamo fatto tanto, forse un tanto che era troppo per questi posti, e per quei politici e funzionari, per essere capito e apprezzato.
Sono ancora più convinta che ne sia valsa la pena, di partire da zero, di fare fatica, e mandare giù rabbia, perché così ci siamo conosciute, e ci siamo divertite.
Ma sono anche convinta che per Il cacomela questa sede abbia significato tanto, e che ora non sarà facile eguagliarla.
Ci siamo anche chieste se ci fosse un  luogo in cui poter continuare.
Abbiamo sondato presso il comune di Zocca, in particolare con la bibliotecaria Stefania, che in questi anni ci ha sempre supportate, se in quella zona poteva esserci una sede per noi, che non fosse un salasso. Su Guiglia non siamo particolarmente benvenute dall’amministrazione, per cui abbiamo lasciato perdere.
E per ora siamo rimaste questo, un gruppo di amiche che fanno in modo di tenere allacciati i rapporti umani, e che si scambiano mail con films da vedere, libri e articoli da leggere, passeggiate da fare e festival a cui partecipare.
Questa è la nostra piccola storia, che ha a che fare con la sensazione asfissiante che il potere a volte vince, e che a volte occorre essere ragionevoli, e lasciar andare.

Agnese Prandi
19/01/15